In un certo senso l’avrebbe anche assaggiata. No, doveva spiegarsi meglio. La poverina era terrorizzata e, in qualche modo, voleva quasi rassicurarla.
Ormai aveva posticipato la partenza.
Aveva chiacchierato quella sera con Marianne. Arrivava dall’Olanda. I suoi erano mancati anni prima, faceva la commessa in un supermarket a Utrecht. Poi aveva mollato tutto ed era partita. Voleva trovare un posto al caldo, magari in Spagna, e fermarsi. Un lavoro l’avrebbe trovato di certo.
Così la patologia riprese il suo posto di comando e alla fine di quella serata di chiacchiere, Marianne fu trasportata, addormentata velocemente con la tisana rilassante, nella stanza insonorizzata.
Si svegliò legata e spaventata, piagnucolava.
“Non ti preoccupare, credo sarai l’ultima”.
La ispirarono le guance rosse, adesso, con il tepore, erano rosate ma molto allettanti.
In verità era un po’ quell’impellente necessità, con sé stessa, di spiegarsi le cose, cercare di analizzarle.
“Da piccola avevo sempre la mania di provare a mordere tutto, mettevo sempre tutto in bocca e con forza lo facevo a pezzi. Era sempre una sorta di prova di quanto fossi forte, di quanto erano forti le mie mandibole, di quanto riuscivo a stringere, cosa riuscivo a strappare”. Pensava, mentre la guardava legata e piangente.
Le lacrime le davano fastidio. Rigavano le guance, ed erano proprio quelle belle guance paffute che lei voleva mordere.
Voleva provare, finalmente, una volta, con un pezzo di carne viva, vedere cosa succedeva se avesse affondato i denti in quella bella guanciotta.
“Non voglio strapparle la guancia. Voglio affondare i denti con tutta la forza possibile e vedere cosa succede”.
Le lacrime le davano fastidio per come immaginava come un morso perfetto. Poi il problema del sangue, umido anche quello e magari le sarebbe colato in bocca. Il rischio era che potesse farle schifo.
Doveva proprio provare.
Poi c’era anche l’altra cosa, ancora più interessante, quell’immagine di Hannibal Lector che soffrigge quel delizioso pezzo di cervella e la fa mangiare anche al suo proprietario.
Lei amava le animelle fritte e quel pezzettino, sfrigolante, le era rimasto in mente. Doveva essere proprio buono.
Insomma avrebbe voluto fare entrambe le cose.
Si accovacciò e asciugò le lacrime a quella tapina terrorizzata. “Ma piccina, non piangere. Io vorrei proprio provare a morderti la guancia e la vorrei asciutta”. Si avvicinò e con un fazzoletto asciugò ancora le lacrime. Diede un bel morso. E tenne stretto, sempre più stretto. Sentiva la carne lacerarsi piano sotto i denti. Era concentrata su quelle sensazioni, l’urlo continuato non la interessava, neanche il bagnato del sangue. Si sentiva un lupo, una leonessa che si mangiava la preda e ne staccava i pezzi. Bella sensazione.
Un pezzo di guancia riuscì a strappalo. Ecco era finita. Era arrivata a quello che voleva provare. Le bastava.
La meschina era svenuta. Poco male. Le fece una bella iniezione di aconito e morì subito.
La stessa procedura di sempre.
Aveva chiuso tutto e dovette riaprire il fienile, la buca del barbecue e ripulire tutto, come al solito.
I soliti tre giorni, per fare un lavoro come si deve. Si stancava sempre di più, era tutto più pesante.
Quella volta usò le ceneri come concime.
In un secondo decise di cambiare il piano.
Inaspettatamente una stanchezza inarrestabile l’avvolse e comprese che non era più tempo.
Aveva anche provato a strappare la carne.
Di più non le interessava. Non era un una cannibale e l’idea di friggere il cervello rimaneva in uno dei suoi film preferiti, nessuna emulazione. Si sarebbe fermata lì.
Era tutto a posto.
Solo una cosa non aveva mai provato.
L’ultima curiosità.
Non avrebbe saputo cosa succedeva dopo, per lo meno non nello stato attuale in cui si trovava.
La notte le avrebbe portato consiglio.
La mattina dopo si svegliò e mentre faceva colazione, decise che doveva farlo.
Non avrebbe perso nulla, non c’era nulla da rimpiangere né problemi di sorta.
Quella era l’unica curiosità che non aveva ancora soddisfatto.
Optò per il blu. Pantaloni di velluto e il maglione a collo alto, quello con le trecce.
Prese una siringa, la riempì con l’estratto di aconitum napellus, il suo preferito, si stese sul divano e se la infilò in vena.
La trovarono dopo una settimana.
Yuri era entrato con le chiavi, credeva fosse già partita invece la porta era aperta e la radio trasmetteva della musica.
Le mancava la sensazione della Morte.
Quella voleva soddisfare e così fece.
Tutto il paese era al funerale.
Nessuno si spiegò quel gesto così inaspettato.
Ogni anno, per i morti, la sua tomba era ricoperta di fiori di Aconito, Yuri li continuava a coltivare appositamente per lei.
Erano i suoi preferiti.