Quel giorno Marco perse ancora la falangetta e, come ho scritto all’inizio, si ricomponeva, si rimetteva insieme sotto il fascio di luce.
Sembrava avessero trovato l’antivirus e lui, giovane ragazzino di dodici anni, ne aveva fatto subito richiesta.
Prese la falangetta ma questa non ne voleva sapere di riattaccarsi.
Chiese istruzioni e gli risposero di avere pazienza, di provare ad uscire dal fascio paglierino, fermarsi, tenere per qualche minuto la falangetta a contatto, ben ferma e tutto sarebbe tornato a posto.
Il piccolo Marco tutto fiducioso uscì dalla luce, si sedette su una specie di panca – che strano era il salotto di velluto rosso dove stava accoccolato vicino alla sua mamma – invece era una brutta panca dura, scura.
Non capiva ma si mise lì, con la schiena appoggiata a quella parete fredda, attento a tenere ben vicini il suo ditino e la parte mozzata.
Era attento. Obbediva sempre. Fece il conto che era rimasto per il tempo di quattro video games di storia.
Gli sembrò sufficiente.
Lasciò andare la presa e il dito si staccò, rotolando per terra.
Non era servito a nulla.
Fece per alzarsi per comunicare il fallimento alla direzione centrale – senz’altro aveva sbagliato qualcosa – ma il piede sinistro si staccò e lui cadde malamente in terra.
Si fece male.
Sentì qualcosa che non aveva mai provato: assolutamente sgradevole e non capiva.
Perché sentiva quelle cose così brutte?
Quando giocava, se il suo personaggio cadeva, non sentiva nulla.
Si trascinò e chiese aiuto. Cercò la madre che era a fare shopping in una città che si chiamava Parigi e stava comprandosi degli stivali rossi di vernice stupendi per la serata che doveva passare con lui e il papà in un ristorante sottomarino alle Isole Maldive – ormai inesistenti – per festeggiare il suo compleanno.
La madre era molto scocciata e stupita.
Sì, sì, aveva sentito parlare di quel virus, che chiamasse la direzione ancora ed esponesse il problema. Lei sarebbe tornata prima di uscire